Lino Alviani, filosofo dell’arte e della vita.
SULMONA– Lino Alviani è un filosofo dell’arte, un uomo avvezzo all’osare e alla sperimentazione. Grande amante della conoscenza del mondo e delle persone che lo abitano, delle culture, ma anche della flora e della fauna, soggetti che ha portato nel tempo, a vivere nelle sue opere.
Tra quadri e parole si corre ad acchiappare le nuvole, alla continua ricerca di qualcosa di infinito, di tangibile e incorporeo che avvolge la mente e le forme. Nel girovagare alla ricerca di una sua verità ha trovato una via, con l’impulso a spingersi sempre oltre, come a desiderare una dimora senza tetto, da dove si può spiccare il volo verso chissà dove, forse in direzione di una conoscenza mai sazia che abbraccia ogni senso, ogni bisogno dell’essere. Lino ha studiato a fondo le discipline filosofiche, la natura, gli oggetti, le donne, riportando le scoperte con meticolosa estetica letteraria e concettuale, nelle opere, nello stile poetico, nella vita stessa.
Ardito amante delle forme sinuose del corpo femminile, egli investe l’arte del mandato alle sensazioni: il tempo, l’amore, l’evoluzione, la meraviglia, il desiderio.
Le poesie carnali e dense, scavano come a intrufolarsi dentro le storie di chi legge. Spesso nostalgico, il più delle volte voluttuoso, si rivela in un incedere lento che di colpo si innalza e poi scioglie e slega ogni timore. Restituisce con i versi, verità temute, coraggi dimenticati, paladino coraggioso e impavido, dona attimi di bellezza vera, senza fronzoli, diretta ed esplicita.
Un uomo sicuramente non comune, lontano dal concetto di omologazione, di sudditanza, Lino Alviani ha decisamente infranto ogni regola imposta dalla società, non ha assecondato e non lo fa oggi, certi obblighi sottaciuti, quelli dettati tra le righe. Artista e uomo libero ha suscitato, e continua a farlo, emozioni scucite da una trama troppo spesso vista, troppo spesso obbediente.
Maestro, cosa la ispira maggiormente nella creazione delle opere?
Mi esprimo ispirandomi alla filosofia Zen Buddista, però ogni due o tre anni ho necessità di cambiare perché ho esaurito il messaggio. Lo Zen è rappresentato dal triangolo, dal quadrangolo, dal cerchio e dalla spirale. Il triangolo è mente, corpo e anima. Il quadrangolo è terra, fuoco, acqua e aria. Il cerchio è la perfezione. La spirale è la ricerca della perfezione.
Nei suoi dipinti torna spesso la figura femminile, come anche i fiori e le farfalle, cosa rappresentano per lei?
Ogni tanto ho bisogno di cambiare pensiero, ho necessità di ritornare a cose che facevo prima, come ad esempio: donne rose e farfalle. Ho dipinto molte donne, continuo ancora a dipingerle. Ho iniziato a concettualizzare sulla connessione tra la donna, la rosa e la farfalla e mi piaceva perché ritengo che la rosa sia il fiore più bello, ogni petalo che cade rivela un nuovo petalo fino ad arrivare a far rinascere un nuovo fiore; la farfalla è l’animale più colorato, più bello, più etereo che ci sia e, volando di rosa in rosa, genera altra riproduzione, la donna e il suo corpo florido e rigoglioso, è creatrice. Ho teorizzato molto su queste nozioni e mi sono lasciato ispirare, le donne sono state una presenza costante nella mia produzione artistica, in particolare una che era la mia modella. Uso spesso raffigurare le foglie, l’acero rosso oppure il Ginkgo Biloba che è l’unica pianta che è riuscita a sopravvivere alle glaciazioni, io faccio bonsai e ne ho due di Ginkgo Biloba, recupero le foglie e le utilizzo anche sui quadri.
Ha ricevuto molti premi e riconoscimenti, ha esposto in moltissimi luoghi di grande pregio sia in Italia che all’estero, cosa può dirci riguardo alla recente mensione per sua prestigiosa carriera?
Non partecipo più a eventi e mostre da tempo, al Premio Sulmona ho partecipato quest’anno, in sei siamo stati sul palco, gran bel riconoscimento. Sgarbi, Presidente del Premio, nella sua illustrazione di tutti i grandi ha nominato pure me e questo mi ha fatto molto piacere. Il Premio di Sulmona è andato molto bene, non me l’aspettavo, mi hanno obbligato a partecipare, io non partecipavo più. In quella occasione ho dichiarato: “È inutile che vi parli di me perché gli artisti parlano con le loro opere, le emozioni le deve dare il quadro”.
Cosa significano per lei il vuoto e la forma?
Il vuoto è forma, la forma è vuoto. Il vuoto è forma perché poi alla fine forma qualcosa, dove non c’è niente la tua immaginazione va a metterci qualcosa, perché è giusto anche questo, ognuno poi deve vedere nel quadro quello che può immaginare. Lì non c’è niente, ci puoi entrare. Un mio Haiku dice: “L’idea è vaga nel vuoto della mente”.
Come si è avvicinato alle teorie e filosofie orientali?
Fino ai diciott’anni anni ero molto cattolico poi me ne sono andato a Pescara all’università, in molti abbiamo fatto il ’68, cosa molto importante per me che riporto anche nelle mie poesie. La mia filosofia deriva dal fatto che mi sono avvicinato alla Beat Generation americana, a scrittori e poeti come Kerouac, Ginsberg, Burroughs, Ferlinghetti, Corso, loro parlavano della filosofia Zen Buddista, ho letto molto di loro quando ero al liceo, poi sono passato a leggere autori giapponesi.
Perché la sua immagine compare in molte delle sue opere?
Ci sono perché ho scelto intenzionalmente di riprendere alcuni artisti che hanno influenzato la mia arte, come Caravaggio nella mia “Baccolino” o Teofilo Patini in “Pancia e cuore”, la pancia è evidente ed è mia, ecco perché nel quadro guardo in maniera beffarda il monaco che prega.
Quali sono le sue tecniche preferite, a lei più congeniali?
La base di quasi tutti i miei quadri è fatta con colla di pesce, tonachino o altra malta, polvere di marmo e tuorlo d’uovo, praticamente la base che si usa per gli affreschi, io la riporto quasi su tutti i quadri, la ritengo una base essenziale per questo tipo di pittura. E poi uso molte terre, ma nelle opere uso un po’ tutte le tecniche. Dipingo su tela e legno. Sono autodidatta, non ho frequentato scuole d’arte, ho costruito tutto da me, diciamo che è stata l’esperienza ad essere fruttuosa, sono stato quattro anni a New York, e ho fatto mostre in Giappone in Taiwan, in Guatemala. Mi sono dedicato anche alla scultura e all’installazione. Le mie opere sono piene di elementi, una volta saccheggiai la soffitta di un notaio, ho tirato fuori documenti e carte varie che uso spesso per i quadri.
È vero che regala quadri ai suoi amici?
Ho uno studio di 130 metri quadrati, a un certo punto non riuscivo più a lavorare perché ero pieno di opere, e poi è subentrata una certa stanchezza nel partecipare alle esposizioni, trasportare, viaggiare. Così oggi chiamo gli amici e vengono a prendere ogni tanto, un quadro. Lo faccio volentieri, non sono legato alle vendite o ad altro, è chiaro che sono tutti miei figli, mi fa piacere che gli amici abbiano un mio figlio. È bene che anche altri usufruiscano delle mie opere, è una condivisione. Cosa li tengo a fare chiusi qui dentro? È giusto che i miei amici abbiano un mio lavoro.
Lino Alviani non firma i quadri sul dipinto per non “sporcare” l’opera, la appone nel retro, alcune portano un sigillo in ceralacca. Numerosi bozzetti su tela attendono di essere ripresi e trasformati in grandi opere d’arte, piccole sperimentazioni che presto daranno alla luce altri capolavori.
L’esperienza a NY, un grattacielo con 150 gallerie, la Factory di Andy Wharol, i Loft degli artisti, le mostre in Massachusetts e Pennsylvania, e ancora in Giappone, Taiwan, Guatemala. Il gemellaggio con New York, i viaggi, gli incontri, gli incastri di vita. Un’esperienza unica di fronte alla quale non si può non uscire cambiati, è la favola di Lino Alviani che lascia nella mente e nel cuore un’idea di magia. Tra giardini, erba fresca, rivoli d’acqua, alberi al vento, rose, donne, farfalle, mandala, haiku, ci si perde in un mondo che cattura, che trascina verso il limite oltre il quale c’è la libertà.
“A volte entro nello studio, accendo, spengo e me ne vado, perché adesso faccio tre cose: il nonno, l’artista e quello che mi piace di fare, anche niente”. (Lino Alviani )
Maria Zaccagnini