Sulmona, 9 aprile- Negli ultimi anni abbiamo assistito, con profondo rammarico, alla censura di grandi opere letterarie, vere e proprie pietre miliari della cultura occidentale, in diverse università americane ed europee, unitamente alla decisione presa dalle stesse, francamente incomprensibile, di interrompere qualsiasi rapporto con le università israeliane, in prima fila nella mobilitazione anti-Netanyahu, che scendono ogni giorno in piazza per chiedere le dimissioni del primo ministro, rivendicare nuove elezioni e andare ad una soluzione negoziale del conflitto con Hamas.
La domanda che molti si pongono è quella se esista o no un nesso tra l’attacco ai capolavori della cultura occidentale e l’avversione che molti studenti e anche un discreto numero di docenti, nei licei e nelle università, manifestano nei confronti di Israele, mentre indulgente appare il loro atteggiamento nei confronti dei grandi paesi autocratici di oggi, come la Russia, la Cina, l’Iran. Il nesso esiste ed è dovuto alla presenza di minoranze, espressione di una controcultura decisamente antioccidentale, votate ad un unilateralismo culturale, i cui esiti negativi non tarderanno a farsi sentire.
È in atto una guerra culturale non solo in America ma anche in Europa e le università appaiono come lo snodo strategico di questa rivoluzione-involuzione, perché sono al vertice dei sistemi educativi di tutti i paesi occidentali e sono quindi in grado di influenzare ogni altra istituzione culturale, dai centri di ricerca, alle scuole, ai mezzi di comunicazione.
Inevitabili le ripercussioni su tutta la vita sociale e politica, a conferma che la storia anche oggi, come ieri, è fortemente condizionata da minoranze molto combattive e determinate, impegnate a mettere in rotta di collisione istituzioni culturali e civiltà liberale.
Nelle università italiane, che andrebbero aiutate a competere con quelle straniere, non esiste ancora un elenco di libri e autori proibiti, ma molti pensano che sia solo questione di tempo, perché siamo bravi ad adeguarci a quello che fanno gli altri, in particolare le università anglosassoni. Ma l’università è necessariamente pluralista e quindi molto diversa da quella che emerge dalla visione unilateralista della sinistra radicale e della destra conservatrice, basti pensare al ruolo importante esercitato al suo interno dai politecnici che lavorano su insiemi di competenze che non possono essere unilaterali, per loro natura.
L’unilateralismo costituisce la cifra intellettuale di non pochi docenti, prigionieri di schemi in base ai quali ciò che conta è schierarsi; per questa ragione, mentre fa notizia che a qualcuno è negata nei pubblici dibattiti o nelle università la parola ad opera di gruppetti di contestatori urlanti, non si parli affatto di una specie di autocensura preventiva che evita accuratamente oratori e argomenti pericolosi.
Le minoranze vincono, a meno che non ci siano leaders autorevoli e coraggiosi, in questo caso leaders culturali consapevoli della necessità di disporre di luoghi di cultura, come le università, liberamente aperte al sapere, dove non si subiscano ricatti e imposizioni, ma si educhino le nuove generazioni allo studio e alla ricerca.
Angela Casilli