Sulmona,10 novembre– Il 9 novembre del 1989 crolla il muro di Berlino e da allora il mondo ha conosciuto enormi cambiamenti. La fine della guerra fredda vede prevaricare una unica super potenza: gli Stati Uniti d’America. E mentre questi, allora, bombardavano la Serbia per la questione del Kosovo, la crisi economica asiatica metteva in ginocchio molte economie emergenti. Alcune grandi istituzioni come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale del commercio, erano del parere che il “momento unipolare” fosse destinato a durare a lungo e che si sarebbe accompagnato al trionfo delle istituzioni internazionali liberali e della democrazia come unico sistema di governo per creare crescente prosperità. Invece, sottotraccia erano già in atto quei processi che avrebbero condotto al mondo di oggi.
Nel 1980 le economie emergenti producevano solo il 25% del PIL mondiale, mentre quelle avanzate il restante 75%, oggi le prime hanno raggiunto quasi le seconde. Questa crescita non è stata armonica per tutte le economie emergenti: La Cina, per esempio, è oggi 13 volte più grande rispetto a trent’anni fa e l’India è cresciuta di circa 6 volte, mentre è crescita meno l’Africa Subsahariana (3 volte).
Cambia quindi il baricentro economico del mondo: nel 1980 erea molto vicino all’Europa, oggi è in prossimità della Cina e dell’India. Secondo l’ISPIin futuro ci si aspetta un ulteriore spostamento ad est: entro il 2045 questo punto si troverà a poche centinaia di chilometri da Pechino. Quello che oggi sembra emergere con crescente evidenza è una nuova forma di bipolarismo, ovvero un mondo in cui la competizione politica ed economica globale si gioca sempre più tra due grandi potenze: Stati Uniti e Cina. Gli altri Paesi appaiono sempre più relegati a un ruolo secondario.Ciascuna di queste due potenze ha un’economia che vale circa 3-4 volte quella di Giappone, 5 trilioni di dollari, Germania, 4 trilioni di dollari, India, Francia e Regno Unito, 3 trilioni di dollari. Ancora più indietro c’è l’Italia (2 trilioni), che rimane nel G7 anche se è sempre meno tra le prime sette economie al mondo.
Tutto ciò porta ad inquadrare una nuova “bipolarizzazione” del mondo, con Usa e Cina a fare da poli di attrazione per gli altri Paesi. E in un contesto di contrapposizione tra due superpotenze, la conflittualità tra le due è sempre dietro l’angolo. Oggi infatti gli Usa di Trump fanno di tutto per cercare di preservare il loro ruolo di leader mondiale. La Cina appare invece sempre più pronta a sfidare questa leadership, tant’è che nell’ambito commerciale si sta già svolgendo una vera e propria guerra commerciale. Una guerra che ha ovvie ricadute non solo per i due contendenti, ma per l’intero commercio e PIL mondiale.
Ad avviare formalmente l’escalation è stato il presidente statunitense Joe Biden, che l’anno scorso ha imposto dazi sull’importazione di acciaio e alluminio dalla Cina, senza risparmiare neppure gli alleati europei. L’escalation dei dazi tra i due Paesi non si è al momento arrestata e i mercati iniziano a risentire del clima di incertezza, che colpisce di più quei Paesi in cui le esportazioni rappresentano il vero motore dello sviluppo: come la Germania, che alle proprie debolezze interne aggiunge l’incertezza dei mercati internazionali e rischia di trascinare verso il basso anche gli altri partner economici europei, tra cui l’Italia.
Ma quello del commercio è solo un primo assaggio della competizione Usa-Cina che già oggi, e ancor più domani, si gioca su due terreni di cruciale importanza strategica: la tecnologia e le infrastrutture. Nel primo caso la Cina può già vantare un primato mondiale nella commercializzazione del 5G e intende accelerare ulteriormente, puntando nei prossimi anni alla leadership in altri settori tecnologici fondamentali, come quello dell’intelligenza artificiale. Anche nel secondo caso – le infrastrutture – la Cina ha agito prima e meglio degli USA lanciando la Belt & Road Initiative (BRI), che mira ad avvicinare a sé Paesi che spaziano dall’Asia all’Africa, all’Europa, con diramazioni addirittura fino all’America Latina. Un avvicinamento ottenuto promettendo a questi Paesi una accresciuta connettività e l’aumento degli scambi commerciali. Solo di recente gli Usa hanno risposto all’attivismo cinese, avviando a loro volta progetti di cooperazione infrastrutturale nel sud-est asiatico – il cosiddetto “The Quad” – con i loro tradizionali alleati: India, Australia e Giappone.
Un ulteriore fattore derivante dalla nuova competizione Usa-Cina, con vaste ricadute anche per le imprese italiane che si affacciano sul mondo, ha un carattere più sistemico e riguarda la “fluidità” del sistema di alleanze a livello internazionale. C’è infatti una sostanziale differenza rispetto alla competizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica dell’epoca della guerra fredda. Un primo lampante esempio di questa fluidità si è già avuto qualche anno fa. A fine 2015 Pechino decise di lanciare la Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), una istituzione finanziaria multilaterale che sembrava in aperta competizione con la Banca Mondiale, una delle Istituzioni cardine dell’ordine liberale occidentale a sostanziale guida americana. Malgrado i moniti dell’allora presidente Obama, una folta truppa di Paesi Europei si affrettò ad aderire alla nuova banca di sviluppo cinese attratta dalle opportunità di business per le proprie imprese. E lo stesso vale per la BRI (Via della Seta), inclusa la decisione dell’Italia dello scorso marzo di sottoscrivere un Memorandum of Understanding (MoU) con Pechino.
In definitiva, dunque, lo scenario internazionale che sembra stagliarsi all’orizzonte è quello di una nuova forma di confronto tra due grandi potenze che, da un lato, implica una inevitabile competizione, e dall’altro è segnato da una fluidità delle alleanze che spinge verso una crescente complessità e incertezza soprattutto a livello regionale. In questo nuovo scontro tra giganti il ruolo dell’Europa sembrerebbe destinato a ridursi ulteriormente, con i singoli Paesi europei che rischiano di diventare semplici pedine di un gioco più grande di loro. Per cercare un’alternativa bisognerà tenere conto delle caratteristiche del nuovo confronto tra “grandi”, approfittandone ove possibile attraverso un adattamento di tattiche e strategie.
Proprio il caso della firma del MoU Italia-Cina l’Italia ha tentato di lavorare di sponda, con l’obiettivo di proporre un ribilanciamento delle proprie alleanze e piani di sviluppo. Più ancora di quanto accaduto all’epoca della guerra fredda, periodo in cui l’Italia si proponeva sì come “pontiere” tra la sponda atlantica e quella sovietica, ma restando saldamente ancorata alla sua appartenenza al blocco atlantico, il nostro Paese sembra oggi potersi abbandonare alla tentazione di allearsi con l’una o con l’altra grande potenza a seconda del dossier considerato. Un modo per estrarre il massimo dalla fluidità delle alleanze. Inoltre, sia l’Italia sia altri Paesi Europei possono in qualche modo immaginare di poter approfittare della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, che permette a chi ne resta fuori di sostituire con proprie esportazioni il vuoto lasciato dalle merci made in Usa e made in China in questi due Paesi. Va al riguardo ricordato che, secondo stime UNCTAD, 70 miliardi di dollari del commercio bilaterale Cina-Stati Uniti (50 miliardi dagli Usa e 20 dalla Cina) potrebbero essere intercettati dall’Unione Europea.
Ci sono quindi margini per approfittare della conflittualità tra le due superpotenze e della relativa fluidità delle alleanze del nuovo contesto bipolare. Ma bisogna fare molta attenzione nel distinguere tra tattiche di breve periodo e strategie di lungo periodo. Le medie potenze europee, Italia inclusa, possono anche tatticamente cercare di approfittare delle opportunità offerte dalla AIIB, dal 5G cinese, dalla BRI e persino dalla guerra commerciale tra Pechino e Washington.
Ma estendendo l’orizzonte temporale, dovranno anche pianificare le proprie strategie considerando che l’alleanza con l’una o l’altra potenza non può essere senza conseguenze. Va attentamente valutato il set di valori e ideologie – anche oltre l’ambito strettamente politico-economico – che le due grandi potenze offrono. Nel caso dei Paesi europei risulterebbe estremamente rischioso e controproducente abbandonare l’alleanza atlantica, non solo perché da questa dipende ancora la nostra sicurezza nell’ambito della NATO, ma anche perché esiste una vicinanza “ideologica” con Washington che non può certamente essere replicata con Pechino. In secondo luogo, perché un atteggiamento ambiguo finirebbe prima o poi per stancare l’una o l’altra grande potenza, se non addirittura entrambe.
Ma, in questo “gioco tra grandi” i Paesi Europei possono comunque ritagliarsi un loro importante spazio attraverso l’azione congiunta nell’ambito dell’Unione Europea. D’altra parte anche dopo Brexit il Pil dell’intera Unione Europea varrà ancora il 17% di quello mondiale – più di quello cinese. L’intera UE ha quindi un peso tale, quanto meno sul piano economico, da potersi giocare le proprie carte con Cina e Usa. In alcuni casi, come ad esempio nel commercio, lo può fare quasi alla pari. Ovviamente, a patto che non solo i singoli Paesi Europei, ma anche l’Unione Europea siano in grado di riadattare le proprie strategie al nuovo contesto globale.
Tornando alla caduta del Muro di Berlino che in effetti ha significato la fine anticipata di un secolo definito per questo “breve”, storia contemporanea del mondo, non solo per motivi geopolitici, e per averci lasciati in eredità un nuovo ordine mondiale e nuove mappe geografiche; l’abbattimento del Muro è un evento che ha avuto un impatto culturale fortissimo sulla cultura di massa europea. Ne è un esempio il fatto che, solamente pochi mesi dopo il crollo della barriera che per ventotto anni aveva diviso Berlino, l’ex leader della storica rock band Pink Floyd, Roger Waters, decise di organizzare un gigantesco concerto, destinato ad entrare nelle pagine della storia della musica e non solo, che si tenne il 21 luglio 1990. L’enorme e spettacolare palco venne collocato in un’area simbolo della divisione della città, tra Potsdamer Platz e la Porta di Brandeburgo. In un’intervista alla rivista GQ, Waters disse: “Se questo concerto vuole celebrare qualcosa, è che il crollo del muro di Berlino può essere interpretato come una liberazione dell’animo umano”.
Sebbene la caduta del Muro di Berlino sia stato un evento assolutamente eccezionale e dalla portata mondiale, non bisogna cadere nell’errore di dimenticare che ancora oggi, nel mondo, e persino nella unitissima Europa, esistono altri muri e barriere che dividono e opprimono i popoli. Vediamo alcuni esempi. Nicosia, la capitale di Cipro, dal 1974 è divisa da un muro fatto di cemento, filo spinato e torrette di controllo, la cui naturale continuazione è la green line che spacca l’isola a metà. Da un lato la Repubblica di Cipro, paese membro UE e a maggioranza greca, dall’altro l’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord, ancora oggi militarmente occupata dalle truppe turche, e colonizzata da settlers arrivati dall’Anatolia nel corso di 40 anni di occupazione.
Negli anni ’80 invece il Marocco ha cominciato l’edificazione di quella che è poi diventata una barriera gigantesca, di oltre 2 mila chilometri, che, a detta del governo di Rabat, divide lo stato marocchino dal Sahara Occidentale per motivi esclusivamente difensivi. Non è della stessa opinione il popolo Saharawi, uno dei più perseguitati al mondo, che definisce il muro una mera scusa portata avanti dal Marocco per mantenere sotto il proprio controllo un’area particolarmente ricca e strategica. In Algeria, storico alleato Saharawi, si trova tutt’oggi in esilio il Fronte Polisario, l’organizzazione politico-militare che rivendica la sovranità sul territorio del Western Sahara.
Oltre al muro fra Usa e Messico, che con Trump di certo allungherà in conclusione, è doveroso menzionare quella che è probabilmente e tristemente a tutt’oggi la più celebre barriera al mondo; ovvero il muro che, dal 2002, separa e divide Israele dalla Palestina e dai territori occupati del West Bank. La ‘’Barriera di Separazione Israeliana’’, come viene definita ufficialmente da Tel Aviv, è non altro che un sistema di barriere fisiche, intervallata da muro e reticolati con porte elettroniche, lunghe circa 730 chilometri. Più volte definito ‘’vergognoso’’ e ‘’razzista’’, viene considerato dal popolo palestinese e da una grandissima parte della società civile internazionale, come un simbolo di segregazione razziale e apartheid.
Carlo Di Stanislao