(di Domenico Logozzo *)
SULMONA, Aprile- Vi racconto la mia “bella bandiera” di fortunato nipotino della civiltà contadina del Novecento. Ho avuto la fortuna di crescere con l’esempio e i buoni consigli di nonna “Mara Tiresa”, come affettuosamente la chiamavo quando ero bambino. Mi ha dato tanto. Le sue radici contadine, innanzitutto. Radici fortissime. Orgoglio delle origini che custodisco gelosamente.
Mia nonna era una donna forte. Straordinariamente dolce. Comprensiva. Mi affascinavano i suoi racconti di bambina della seconda metà dell’Ottocento (era nata nel 1872). Mi diceva di quando andava a lavorare nei campi per aiutare i genitori, e dava da mangiare alle galline, riportava a casa le uova, accudiva anche il paziente asinello. Gli dava da mangiare, lo portava fuori dalla stalla. Così come faceva con la capretta. Non c’erano giocattoli. Ma la gioia di… giocare con le galline, l’asinello, la capretta. Era anche un impegno, un lavoro, un aiuto importante alla famiglia. Le famiglie di un tempo erano numerose, addirittura fino a tredici-quattordici figli. Tante bocche da sfamare C’era solo tanto da lavorare e ognuno doveva dare il suo contributo, fin da piccoli.
Leggendo qualche tempo fa uno scritto di Corrado Alvaro dal titolo “Il nipotino”, pubblicato dalla Stampa il 18 novembre 1927, ho ripensato a mia nonna e a quello che mi diceva negli anni Cinquanta. Scriveva Alvaro: “Nella stalla gli occhi dell’asino si spalancarono su di noi come occhi dell’oscurità. Cesarino rideva e batteva le mani. Salì sulla groppa della bestia che seguitava a ruminare accosciata sulla paglia, e fece proposito di molti viaggi: Io credo, diceva, che abbiamo fatto bene a venire qui. Non pensava più di ripartire, ma rideva di un riso nuovo, il riso elementare dei ragazzi dei campi, aperto, grosso, senza ragione, che non si sa di dove nasca se non dalla felicità di trovarsi in un mondo dove i giocattoli sono animati da un soffio di vita”.
Un soffio di vita. E debbo dire che io mi divertivo tanto da mia nonna. Aveva ancora le galline. Ed era bello correre nei campi, all’aria aperta. A volte appena lavorati, zappando ore e ore, dall’alba al tramonto, con la pioggia o con il sole. Seminati. Quindi “vietati”. Ma la gioia era tanta che il divieto spesso lo ignoravo. Dicevo dentro di me: e vai, cosa vuoi che sia una sgridata od un ceffone. Troppo grande la gioia. E via, di corsa, a pieni polmoni, felicemente! Mia madre mi sgridava. E qualche volta arrivava anche qualche ceffone. La nonna, no. “E’ cotraru, fallu u ioca” (E’ un bambino, fallo giocare).
“Mara Tiresa” tutta la vita ha lavorato nei campi. E’ morta a 94 anni. Me la ricordo con la schiena piegata in due, le mani segnate dalla fatica. Il volto però sempre sereno. Non l’ho mai sentita lamentarsi. Dalla bocca di mia nonna non è mai uscita una parola che non fosse d’incitamento per chi era in difficoltà e di elogio per chi aveva fatto bene. Non sapeva cos’era l’invidia. Sapeva cos’era il rispetto. E sapeva cos’era il bisogno. Dava a chi non aveva. Non si è mai lasciata prendere dallo sconforto. Lutti gravissimi. Ha perso un figlio nella Prima Guerra Mondiale, un ragazzo del profondo Sud, mandato a morire “lassù sulle montagne”.
Mio zio Rocco, che fin da bambino aveva usato solo la zappa, non aveva mai preso un’arma in mano, si è trovato con un fucile in prima linea: colpito a morte. Aveva appena 20 anni. Mia nonna è rimasta vedova, con otto figli. Quattro erano femmine e ad ognuna di loro ha preparato anche la dote “obbligatoria” a quei tempi per le ragazze che si dovevano sposare. Mio nonno era morto di crepacuore negli anni Venti. L’alluvione aveva fatto straripare il torrente Cafia. Le acque tumultuose avevano devastato tutti i terreni circostanti. Il florido campo ben coltivato da tutta la famiglia dei miei nonni completamente distrutto. Alberi sradicati. Pietre su pietre. Niente era più rimasto di anni di fatiche, cancellate da una delle ricorrenti alluvioni calabresi che purtroppo hanno provocato danni ingenti, terrore e tante vittime.
Mia madre non aveva più di 8 anni. Ma ricordava bene quella triste mattina della tragedia. Mi raccontava: “Appena aveva fatto giorno e mio padre si era affacciato sull’uscio di casa ha visto quello scempio, ha avuto un urlo di rabbia e poi si è accasciato al suolo. Il suo cuore non ha retto. E’ morto di crepacuore”. Era il 29 dicembre 1932. Sulla sua tomba a Gioiosa Jonica, incisa sul marmo si legge questa commovente dedica: “Qui riposa Giuseppe Lombardo, che nella sua vita lavorò e si sacrificò per la famiglia”.
Mia nonna con l’aiuto di tutta la famiglia quel terreno l’ha riportato di nuovo ad essere produttivo. E’ stata costretta a far ricorso all’ aiuto di altri contadini, che pagava alla giornata. E tra questi per lungo tempo c’è stato anche il contadino Nicola Logozzo, padre del giovane Francesco che diversi anni dopo sarebbe diventato suo genero, sposando la figlia Giuseppina, mia madre. Una bella contadinella.
“Molto corteggiata”, mi raccontò negli Anni Novanta un anziano imprenditore gioiosano. E mi confidò quando mia madre, a 76 anni e molto sofferente, aveva cessato di vivere: “Io ero uno dei giovanotti affascinati dalla sua bellezza, ma lei era riservatissima e non dava retta a nessuno. Camminava sempre con gli occhi abbassati ed era sempre in compagnia della madre o di qualcuno della famiglia “Allora si usciva per andare a messa o per andare alla fontana per prendere l’acqua. E guai se le ragazze alzavano gli occhi e guardavano qualcuno”. Uno sguardo è già compromettente per rovinarsi la reputazione”, ricordo che dicevano gli anziani di allora.
Il vasto terreno agricolo coltivato dai miei si trovava nel cuore di Gioiosa. Era di proprietà del barone Macrì. Mia nonna, colona, morta ultranovantenne, vi era rimasta fino a quando l’amministrazione comunale non decise di costruire su quel terreno il nuovo edificio delle scuole elementari. Mio padre insegnava nella Scuola di Avviamento Professionale ed era assessore comunale alla pubblica istruzione. Successivamente, a partire dal 1960, è stato eletto 5 volte sindaco nel corso della sua lunghissima attività amministrativa (è morto improvvisamente alla vigilia di Natale del 1986 e il consiglio comunale all’unanimità gli ha intitolato una strada inaugurata nel 1992).
Era stato mio padre a voler finalmente dare alle ragazze, ai ragazzi, alle maestre e ai maestri delle elementari di Gioiosa Jonica un edificio scolastico. Fino agli Anni Cinquanta le aule delle elementari erano in diverse case private affittate dal comune. Mia nonna, analfabeta, aveva mandato a scuola soltanto l’ultima delle figlie, mia madre Giuseppina. Fino alla terza elementare e fu uno “strappo alla regola” di quei tempi, perché il futuro delle bambine era “predestinato” fin dalla nascita: mogli “ubbidienti” di mariti scelti dai genitori. Ci sono voluti tanti anni e tante battaglie di civiltà per abbattere tabù vecchi di secoli!
( nonna “Mara Tiresa)
Quando iniziarono i lavori dell’edificio delle scuole elementari, ricordo che mia nonna venne a vivere per sempre a casa nostra con mia zia Giuditta, che era sordomuta e con la quale dialogavamo molto bene. Avevamo la nostra “lingua dei segni”. Lei ogni sera seguiva regolarmente anche la televisione fino alla chiusura delle trasmissioni. Noi quattro fratelli eravamo molto attaccati a zia Giuditta e alla nonna Mara Tiresa. Negli ultimi anni rimanevano soltanto fino al tardo pomeriggio nella casa colonica e poi venivano a dormire a casa nostra. E questo per non farli rimanere soli di notte, sia per l’età avanzata di mia nonna che per qualche problema di cuore. In effetti solo un centinaio di metri dividevano casa nostra dal terreno coltivato dalla nonna. Per me fu una grande gioia.
Nelle sere d’inverno ci sedevamo tutti intorno al braciere. Io, i miei fratelli Nicola, Pompeo e Vici ascoltavamo mia madre, mio padre, mia nonna. Con piacere. Soprattutto la nonna, con i suoi racconti. Quella sua voce calma, quel “suono poetico”, quell’ incisività del dialetto gioiosano che purtroppo non c’è più. Sogno spesso la notte nonna “Mara Tiresa”. Sogni che mi fanno ritornare bambino. Ma mi fanno anche riflettere e mi aiutano. Da lei ho avuto grandi lezioni. La ricchezza dei valori della cultura contadina. Esempi. Fatti concreti. Prove difficili, superate con l’umiltà della ragione. La costanza e la coerenza. Lezioni che mi sono servite. E mi servono ancora. “Mara Tiresa” mi ha dato tanto amore. L’ho amata e la amo tanto.
Ho scritto tutto con amore e gratitudine immensa per la nonna Mara Tiresa. Come dimenticare quel grande gesto che fece nei miei confronti quando ero bambino ed ero seriamente ammalato. Erano necessarie cure specialistiche a quei tempi molto costose. La nonna chiamò mio padre prese il libretto postale con tutti i suoi sudatissimi risparmi di una vita e gli disse: “Andate all’Ufficio Postale e prelevate tutti i soldi che vi servono per far guarire Mimmo”. Anche con quel provvidenziale aiuto economico mi vennero assicurate le cure indispensabili e dopo alcuni mesi di seria apprensione si trovò la terapia adeguata e giunse la tanto sperata guarigione.
Ricordo che tutto il vicinato veniva a farmi continuamente visita per distrarmi e darmi coraggio. Vicinanza che fu molto importante. In quella complicata occasione, per fortuna a lieto fine, ebbi la prima tangibile dimostrazione del grande amore che c’era nella bella gente gioiosana verso chi soffriva. Il paese era una grande famiglia. L’amicizia sincera aveva un grande valore. Ricordo ancora oggi con grande affetto le persone che mi sono state vicine, che purtroppo non ci sono più, ma vivono nel mio cuore! A partire da nonna Mara Tiresa, la mia “bella bandiera” di nipotino della civiltà contadina.
*già Caporedattore TGR Rai