SULMONA– Ha ucciso e sarà punita, in terra e in cielo. Si è macchiata del suo stesso sangue e non troverà pace né in terra, né in cielo, eppure non sarà né la prima, né l’ultima.
Lungi giustificare, debito morale comprendere perché una madre e non solo le madri, arrivano ad uccidere i figli.
Una madre è uno scrigno che, dapprima, custodisce e poi alleva. Le due fasi sono scandite dal parto, che non è solo un mettere al mondo, ma è anche l’entrare in un mondo sconosciuto, che per le più è roseo, colmo di sillabe amorevoli, di pappette, di passetti e di dentini, per poche, ma reali sventurate, è un turbine di sensazioni e sentimenti contrastanti. Nessuna delle due versioni è più normale dell’altra, sono semplicemente diverse, inclini a differenti reazioni ed atteggiamenti.
Il più semplice dei mestieri, il più banale dei lavori, prevede un periodo di prova, di affiancamento e di inserimento, tutto finalizzato ad avere un buon risultato e un buon guadagno, per non parlare dei corsi di aggiornamento, che piovono in ogni dove, le mamme, invece, vengono buttate nella mischia, per dirla alla paesana: “a sorta d’ Dia”.
Ancora oggi, il mio corpo ricorda e riconosce, il freddo, che la sera dell’08 febbraio 2003, lesto e furtivo risalì la corsia del reparto di ostetricia dell’ospedale di Castel di Sangro, giunse nella mia stanza, passò di fianco la culletta di Davide ed occupò il mio ventre, vuoto e flaccido. Nelle infinite, immense e complicate distese della madre che sono divenuta, ne percepisco, ancora, una ingombrante presenza, strascichi, sicuramente strascichi insignificanti, ma tant’è!
Suppongo, fidandomi e affidandomi al mio, personale, vissuto, che una donna, diventa veramente mamma, quando si ritrova sola, in una stanza con la sua creatura e non quando la concepisce, la partorisce o la adotta.
Ineludibile, per tutte, il momento in cui si comprende che i tempi e i modi, per un po’, saranno dettati dal più giovane dei due. Purtroppo o per fortuna, non vi è una reazione standard o solenne per tutte. A comporre e ad erigere le madri, perché le madri si compongono e si erigono, giorno dopo giorno e per sempre, interverranno tanti fattori. Faranno la loro parte i legami famigliari, i lavori, le indipendenze, gli studi, i contesti in cui si è cresciuti e in cui si crescerà, insieme ai propri figli e insieme al resto della famiglia. Certo è, che una donna realizzata è felice e contamina di felicità la propria famiglia e gli ambienti in cui dimora.
Diffusa, fra i contadini la pratica di non avvicinare il nido che la coniglia, prima di partorire, crea per i suoi figliuoli, perché per pronta reazione, alla prossimità dell’odore umano, lei divora i suoi stessi figli. Tutto in apparenza assurdo, nella concretezza reazione di una madre gelosa, insicura e preoccupata. Affiancare una coniglia è improbabile, affiancare una madre che vacilla e arranca, deve divenire prioritario, soprattutto nelle nostre splendide, avanzate e a tratti folcloristiche società!
Non ci si può, solo, indignare e scandalizzare ogni volta che un innocente soccombe, si deve prevenire e curare, d’altronde per il cancro e ogni malattia non facciamo lo stesso? Non facciamo ricerca? Perché una madre non può avere un “cancro” bastardo e subdolo? Perché per una madre e per il bene dei suoi figli non possiamo curare le cause o prevenire mediante sistematica ricerca?
Può succedere e credo che succeda, altrimenti non saremo a piangere una innocente bimba e a scagliare pietre contro una “dannata madre”, che alla gioia iniziale, si uniscano giorni di solitudine, di buio, di abbandono, di rabbia, di risentimento, di inadeguatezza e di paura, che se non intercettate in tempo, se non arginate e accudite degenerino e deraglino, verso una malattia, verso una patologia, verso un accanimento, verso un odio, verso, Dio non voglia mai più, un innocente figlio.
Possiamo chiamarla pazza, animale, carnefice, esaurita, assassina, vigliacca, deficiente, puttana e via discorrendo, la verità è che lei ha errato, ha peccato, ha ucciso, ha distrutto, ha stroncato la vita di sua figlia, ma tutti, involontariamente, ignari, inconsapevoli non abbiamo visto, non percepito, non tentato di evitare, siamo stati, agevolatemi il plurale maiestatis, concausa, ovviamente, senza intento voluto.
Non siamo né forti, né splenditi, né capaci, come ci raccontiamo fra amici, sui social, o durante le cene di esibizione, inteso che non mi rivolgo a tutte le donne-mamme che sputano sangue per avere ed allevare un figlio. In verità siamo fragili, spaventati, inadeguati, precari ed insicuri, ecco perché può accadere, che una creatura ci destabilizzi, un rapporto di coppia finito male ci spinge ad uccidere la madre dei nostri figli, una separazione ci strazia, un qualsiasi cambiamento ci mini l’esistenza.
Ci spacciamo per una società avanzata e matura, in realtà lo siamo poco, se nessuno si accorge che vi sono vite che lentamente si vanno inquinando, si vanno contaminando. Dobbiamo “bonificarci”, non siamo perfetti, però possiamo migliorarci, aiutarci, irrobustirci, rispettando la vita e ponendola alla base di ogni nuovo cammino.
Quello delle madri è un mondo fortissimo, con picchi di fragilità vertiginosi.
Una donna può e deve essere libera di non essere madre. Deve poter essere madre nel modo e nella forma che si sente. Non deve essere solo madre. Non deve essere una madre sola, per il bene suo e soprattutto dei suoi figli.
Cesira Donatelli
1 Commento
Bella riflessione.Complimenti !!