Si intensifica il dibattito attorno alla decisione del Consiglio regionale di inserire nello stemma regionale la figura del Guerriero di Capestrano. Oggi registriamo in proposito una nota del sulmonese Fabio Valerio Maiorano deputato di Storia Patria in Abruzzo
Sulmona, 10 luglio «Cosa fatta, capo ha»: prendo a prestito l’emblematica espressione di Gabriele d’Annunzio per commentare con amarezza la decisione, assunta all’unanimità dai consiglieri regionali, d’inserire il Guerriero di Capestrano nello stemma adottato dalla Regione Abruzzo nel 1986.
Dal 5 luglio 2022, infatti, tutti gli abruzzesi dovranno rapportarsi ad un “pastrocchio” di discutibile valore identitario, di complicatissimo potere comunicativo e finanche connotato da “imprecisioni” araldiche e da evidenti “forzature” storiche.
1) Valore identitario: a detta dei consiglieri, il Guerriero di Capestrano rappresenta il «simbolo unitario dell’intera regione», ma nessuno ha spiegato su quali basi si fonda questa convinzione. Pare che risalga al VI secolo a. C., dunque sarebbe una statua molto antica, ma sulla sua autenticità e sulla sua identità gravano dubbi e perplessità che avrebbero meritato una più attenta e prudente valutazione prima che le massime assise regionali lo facessero assurgere a simbolo di “abruzzesità”.
2) Attendo con ansia di leggere, nel testo legislativo di riferimento, la descrizione del Guerriero di Capestrano che, inserito a pieno titolo nello stemma, deve essere illustrato in ogni suo dettaglio e nel rispetto del linguaggio araldico, insieme con l’enigmatica iscrizione di 98 centimetri che corre sul pilastrino di destra. Da un’indagine sommaria, infatti, le schede che ne riassumono le caratteristiche occupano mediamente più di una pagina, in palese contraddizione con la sbandierata “sintesi comunicativa” e con la “dote unificante” per le quali sarebbe stato scelto come simbolo di tutti gli abruzzesi. In altre parole, la descrizione di tutti i particolare della statua è un preciso obbligo “comunicativo” di cui si deve dare conto nel testo di legge, al pari degli ornamenti esteriori – corona, motto e rami d’alloro e di quercia – posti a completamento dello stemma che, di fatto, è stato adeguato alle norme dettate dallo Stato in tema di araldica pubblica. L’aspetto paradossale è che la Regione, da un lato ha “snobbato” l’Ufficio Onorificenze e Araldica ritenendo di poter fare di “testa propria”, dall’altro ha invece recepito tutte le disposizioni in materia di araldica pubblica (sic), le cui competenze spettano proprio a quell’Ufficio.
3) I simboli sono tali perché conservano nel tempo – e inalterata – la loro originaria essenza simbologica e comunicativa. Il che significa che i simboli non si possono e non si devono mai modificare, tantomeno snaturare; al contrario, l’effige del Guerriero di Capestrano e l’ex stemma dell’Abruzzo sono due elementi – anzi due “mondi” – in evidente contrasto, del tutto incompatibili sul piano storico, ma anche inconciliabili nella resa grafica e nelle convenzioni araldiche, vale a dire nella capacità di tradursi in messaggio sintetico e immediatamente riconoscibile.
4) Al di sopra della corona radiata – la corona “all’antica” consigliata per gli stemmi delle Regioni dall’Ufficio Onorificenze e Araldica presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri – è spuntata la scritta REGIONE ABRUZZO in lettere maiuscole dorate: l’iscrizione, cioè la “spiegazione” dello stemma, è un’evidente tautologia e un abuso sul piano araldico perché contraddice la filosofia e le finalità di questa disciplina,
creata proprio per garantire la massima sintesi comunicativa; la sola iscrizione che di solito accompagna uno stemma – sia esso civico, territoriale, nobiliare, ecclesiastico etc. – è il motto impresso su un nastro posto al di sotto dello scudo; l’eventuale “nome del luogo”, invece, compare al di sopra degli stemmi esclusivamente nei gonfaloni, preceduto di norma dalle qualificazioni “COMUNE DI …”, “CITTÀ DI …”, “PROVINCIA DI …”, “REGIONE …”.
5) Il motto GENTIUM VEL FORTISSIMARUM ITALIAE è estrapolata da uno scritto di Plinio il Vecchio (Historia naturalis, III, 12) che si riferisce inequivocabilmente ai Sanniti, popolo italico insediato in prevalenza in Molise e nei territori a confine con la Campania nordorientale, l’alta Puglia, il nord della Lucania. Premesso che questa frase non ha alcuna attinenza con le comunità dell’Abruzzo (sic), viene da chiedersi la ragione per la quale è stata scelta e, di contro, la recondita ragione per quale non si è inteso privilegiate espressioni capaci di riassumere e di esaltare doti e qualità degli abruzzesi.
6) Ometto, in questa sede, di elencare i numerosi errori storici e araldici che compaiono nello stemma, nel gonfalone e nella bandiera in uso.
Fabio Valerio Maiorano Deputato di Storia Patria in Abruzzo
6 Commentii
https://online.scuola.zanichelli.it/artemondo-blog/2018/11/12/guerriero-capestrano/
https://digilander.libero.it/filosofiaedintorni/bello.htm#:~:text=Per%20Platone%20il%20bello%20%C3%A8,corporeo%20e%20sensibile%2C%20pu%C3%B2%20essere
https://pikaia.eu/la-bellezza-darwin-e-lestetica-evoluzionistica/
https://cab.unime.it/journals/index.php/IJPS/article/download/2772/2450
“Cosa fatta capo ha” non è di D’Annunzio , mA è MOLTO PIU’ REMOTA, è ATTRIBUITA ABuon del Monte de’ Buondelmonti
Ve ne sarebbe anche un’altra egregio Marcello Romano: cosa fatta capo ha. Frase storica (una cosa fatta non può essere disfatta», cioè riesce al suo capo, al suo effetto) che, secondo le testimonianze di R. Malispini e di G. Villani, sarebbe stata pronunciata da Mosca dei Lamberti per indurre gli esitanti Amidei e consorti a vendicarsi di Buondelmonte, uccidendolo: vendetta che fu causa (Dante, Inf. XXVIII, 106-111) della divisione tra i cittadini di Firenze, e dalla quale avrebbe avuto origine la divisione tra Guelfi e Ghibellini. La frase è ancora usata per tagliar corto a eccessive titubanze o a inutili discussioni su cose ormai accadute. Fonte: vocabolario Treccani. Mosca dei Lamberti appartiene ad una delle genie fra le più vetuste di Firenze. Una volta inurbati, i Lamberti elessero la residenza nel sestiere di S. Pancrazio, nei pressi del mercato vecchio, acquistandovi case, palazzi e quelle munite torri. Uno degli episodi più significativi della vita del L. è l’assassinio di Buondelmonte Buondelmonti (10 apr. 1216, giorno di Pasqua), evento al quale si fa convenzionalmente risalire la nascita e la contrapposizione delle due fazioni cittadine che presero poi il nome di guelfa e ghibellina. Fonte: dizionario biografico Treccani.
Andrea Pantaleo