- Lo sguardo creativo di Simone D’Amico-
di Maria Zaccagnini
Sulmona, 4 giugno, L’artista è un ricettacolo di emozioni che vengono da ogni luogo: dal cielo, dalla terra, da un pezzo di carta, da una forma di passaggio, da una tela di ragno.
(Pablo Picasso)
Sulmona si lascia percorrere, tra palazzi antichi e un’ atmosfera che sussurra e avvolge. Una città che respira storia, dove l’arte è parte dell’aria stessa e l’artigianato tradizionale è un vanto. È la culla di Ovidio, patria dei confetti e di una dolcezza infinita.
Incontriamo l’artista Simone D’Amico, il cui sguardo empatico cattura ciò che è visibile ma soprattutto ciò che alla vista è nascosto o sfuggente. Sono proprio gli occhi che emergono attraverso l’esposizione: enigmatici, scrutatori, assenti ma sempre vigili, essi stessi risolutori o confutatori di un’idea.
Scene di vita, sogni, paesaggi, piazze, panorami, temi sociali. Questi gli argomenti che Simone affronta nei quadri dai colori forti, che affiorano spesso con ardire, uscendo dagli schemi convenzionali. Audacia resa tenue dalla delicatezza con cui trasporta fatti, ammissioni e determinazioni sulle tele, artista coraggioso e dolce, proprio come la sua città.
Simone scorge, tra le crepe di un muro o di un intonaco consumato, una scena, un personaggio, un fiore e li fa apparire. Sperimenta, plasma, trasforma qualsiasi materiale in opera d’arte, restituisce dignità a oggetti usurati o che il tempo aveva dimenticato, dipinge murales d’autore. Con incursioni materiche e colori acrilici trasforma i supporti di tela o lignei, in veicoli, messaggeri di favole o evidenziatori di realtà.
Simone D’Amico, cosa vuol dire essere artista?
“Sono una persona timida. I miei quadri sono spesso pieni di occhi che prima rappresentavano la mia ritrosia nello stare al centro dell’attenzione.
Mi sono poi definito “artista” il giorno in cui ho visto una donna che piangeva davanti ad un quadro che tratta di un argomento molto profondo. Davanti alla tela lei mi ha chiesto di potermi abbracciare, sentivo che piangeva e mi disse di essersi riconosciuta nel quadro. È stato un momento intenso, l’attimo in cui ho capito di aver trasmesso qualcosa di veramente forte e importante”.
Un’opera d’arte diventa tale quando da essa scaturisce un’emozione: quando comprendi che questo scambio è avvenuto?
“Quando dipingevo da solo nel mio piccolo studio, creavo in maniera tranquilla opere per fissare per lo più i miei ricordi e accumulavo quadri in attesa di mostre. Poi, con il mio atelier, mi sono reso conto che alcune persone riuscivano ad emozionarsi di fronte alle mie tele.
Vedere qualcuno ammirare con occhi lucidi, inciampando nelle parole mentre cerca di parlarti per raccontarti quello che vede, ti fa capire che hai realizzato qualcosa di veramente grande”.
L’inquietudine è parte dell’artista, come la guardi in volto?
“Io mi curo con la mia arte e il momento in cui spengo il cervello è proprio quando sto seduto da solo con la matita, e disegno. Quando inizio a dipingere tutto il resto scompare. Questo è il bello dell’arte e per me è quella medicina che mi permette di guardare l’inquietudine attraverso gli occhi che dipingo: ti fanno una domanda, cercano una risposta”.
Viaggi molto nel sogno?
“Mi piace molto sognare e immaginare. Quando inizio a pensare ai quadri, a volte li sogno. Molte opere nascono proprio dai miei sogni. Vivo di arte, è nella mia mente, nei miei pensieri, con i colori nella testa”.
Quando ti trovi davanti ad un supporto, sai cosa dipingerai?
“Agli inizi di solito buttavo i colori sulla tela e poi osservavo per capire cosa ne veniva fuori: figure, mani, strade. Oggi sono meno impulsivo: realizzo lo schizzo, lo metto su tela e poi accade il resto”.
Cosa fai quando non arriva la giusta ispirazione, nei momenti di vuoto creativo?
“Se non ho niente da raccontare sto fermo. Col tempo ho capito che devo aspettare perché tanto l’ispirazione prima o poi arriva. Un tempo sentivo la pressione del dover fare per forza un quadro e mi sono ritrovato a realizzare opere che non mi soddisfacevano. Avevo talmente tante cose in testa e non riuscivo a tirarle fuori. Pensa che avevo l’abitudine di lasciare sempre una tela bianca da una parte, a portata di mano, come per farmi dire: “Ricordati che sei un artista!” E quello era il mio pezzo mancante.
Oggi invece, quando dipingo, penso che sarà il mio ultimo quadro, non so perché, ma è per questo che desidero che sia perfetto. Nella mia imperfezione cerco la perfezione”.
Ad oggi che cosa è cambiato in Simone D’Amico, nell’evoluzione artistica?
“La mia evoluzione artistica mi ha permesso di crescere soprattutto come persona. Oppure la mia arte è cresciuta perché sono cresciuto come persona? Non lo so. Non so dirti cosa sia avvenuto prima. Sicuramente qualcosa è cambiato. Ora non sono più talmente timido da evitare mostre ed esposizioni. I giudizi delle persone non mi spaventano più. Anzi: ora provo gusto nell’osservare le reazioni della gente davanti alle mie opere, che siano positive o negative non mi importa. Sono una persona diversa, più equilibrata e sicura di sé.
Una cosa però non è cambiata, l’arte continua ad essere la mia medicina. E lo sarà sempre”.
L’incontro tra Simone D’Amico e la conterranea scrittrice Valentina Venti, ha sancito un legame intellettuale, di amicizia e profonda stima che promette interessanti proposte future. Tra queste spicca il progetto di una scuola d’arte dedicata a chi ha bisogno di aiuto spirituale, un luogo di espressione e metamorfosi, dove la creazione diventa uno strumento di guarigione e crescita personale. La poetessa, dopo il primo intenso incontro davanti a un’opera di Simone, ha trovato ispirazione frequente nell’artista, tanto da dedicargli la copertina della sua raccolta “Per poi svegliarmi in un quadro”. Insieme hanno sviluppato l’idea di un’esperienza immersiva unica nel suo genere: in un ambiente dalle luci soffuse, ci si siede di fronte a un quadro e lo si osserva mentre una voce narrante racconta. È un momento di profonda fusione tra osservatore, tela e voce, che trasporta ovunque l’intensità conduca, coinvolgendo la mente e sedando il corpo.