di Giuseppe Lalli
Sulmona,8 ottobre-Ci sono due parole, che corrispondono a due valori e a due sentimenti, che dovrebbero caratterizzare l’Europa: cristianesimo e libertà. L’idea di patria (terra dei padri) è la stessa idea di nazione, ma vissuta in una dimensione più sentimentale: richiama le radici comuni in maniera più immediata di quanto non faccia l’idea di nazione. La patria, che può indicare anche una porzione di territorio più piccola all’interno della nazione di appartenenza, evoca la difesa, e si lega più facilmente all’idea di libertà. Quest’ultima indica un bisogno profondo, un’esigenza insopprimibile della persona umana, alla quale si può rinunciare, ma solo in via provvisoria, in nome della sicurezza, sentimento anch’esso forte, perché ha a che fare con l’istinto di sopravvivenza.
Quello della patria è un sentimento molto più forte e radicato nella persona umana di quanto abbia voluto far credere nella seconda metà del secolo scorso un’astratta mentalità cosmopolita, quella di ascendenza illuministica contrabbandata da una certa ideologia post sessantottina e prima ancora dall’internazionalismo di stampo marxista–leninista. A differenza del nazionalismo, che reca in sé un’idea di esclusività e di espansione, che coltiva il disegno della “missione da compiere” in seno alle altre nazioni ed è quindi potenzialmente aggressivo, l’idea di patria è un sentimento morale, ed è inseparabile dall’idea di libertà, anzi ha nel suo legame con la libertà la sua essenza.
Il sentimento patriottico è compatibile con un’autentica visione cristiana della vita e della storia (ne sono stati esempi eloquenti il Risorgimento polacco e lo stesso comportamento dei cattolici italiani nella Grande Guerra), il nazionalismo, invece, si appoggia alla Chiesa come instrumentum regni, cioè invoca la religione a sostegno di una volontà di potenza, che si tratti degli imperatori tedeschi o degli zar di tutte le Russie.
Per fare un esempio di scottante attualità, la Russia di Putin è nazionalista, l’Ucraina di Zelensky è patriottica. “Patria e libertà” può essere un binomio vincente, e riassunse il programma di una componente della resistenza antifascista europea, minoritaria ma fortemente consapevole e pregna di avvenire. L’idea di patria, tuttavia, come quella di libertà, non è un sentimento astratto, né si può imporre per convenzione. L’Europa è una grande patria comune, su questo non ci possono essere dubbi. La contiguità territoriale non è tuttavia sufficiente ad alimentare un sentimento di patria comune: esso ha bisogno di affondare le sue radici in una condivisa visione spirituale, in una sentita comunanza di storia e di destino, altrimenti gli egoismi nazionali torneranno presto a farsi sentire.
Questa nostra Europa, che non scalda i cuori e non stimola le menti, come si evince dall’alto tasso di astensionismo alle ultime elezioni per il Parlamento dell’Unione Europea, ha bisogno di ritrovare un’anima a cui attingere la forza necessaria alla difesa delle sue istituzioni liberali, conquiste dello spirito umano mai acquisite una volta per tutte, e quest’anima gliela può dare soprattutto il cristianesimo.
Come sembrano lontani i giorni in cui il francese Robert Schuman (1886-1963), uno dei padri fondatori della Comunità Europea insieme all’italiano Alcide De Gasperi (1881-1954), al tedesco Konrad Adenauer (1876-1967) e al belga Paul-Henry Spaak (1899-1972), presentava il piano di cooperazione economica ideato da Jean Monnet (1888-1979) ed esposto nella “Dichiarazione Schuman’’. Con la creazione della CECA (Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio), Germania, Francia, Italia e Benelux (Belgio, Olanda e Lussemburgo) proclamavano implicitamente che, al di là delle immediate esigenze di cooperazione economica, il carbone e l’acciaio, da materie prime utilizzate per fare la guerra, diventavano risorse strategiche, concrete e al tempo stesso dal forte significato simbolico, di uno sviluppo da perseguire nella pace e nella libertà.
Le classi dirigenti dell’Europa liberale, dichiarando, all’indomani della sconfitta del nazismo, la volontà di non fare mai più guerre tra i popoli del continente, riconoscevano che gli immani conflitti che avevano contrapposto le nazioni europee, si può dire già a partire dalla “Guerra del trent’anni”, erano state tappe di una lunga guerra civile, cioè di una guerra combattuta all’interno di una grande patria comune. Si auspicava dunque la fine del nazionalismo all’interno del nostro continente, e si prefigurava la caduta di quel “muro della vergogna” con il quale, di lì a poco, il comunismo avrebbe artificiosamente diviso l’Europa. Ciò assumeva un valore storico e morale epocale.
A tanta distanza da quelle decisioni e da quei nobili auspici, e all’indomani di una recuperata e sofferta riunificazione attorno alle istituzioni liberali, c’è da chiedersi dove stia andando quest’Occidente di cui il nostro continente è il nucleo storico e il fulcro culturale. Possiamo credere che l’idea stessa di Europa potrà continuare ad esistere all’interno di una “modernità liquida”, caratterizzata dal rifiuto di ogni assoluto morale, avulsa dalle sue radici cristiane, essendo ormai il relativismo etico un fumo che ammorba, con maggiore o minore intensità, tutte le stanze della cultura e della politica, in Italia come in Europa? Può affermarsi una patria comune, dall’Atlantico agli Urali, sulla base del solo interesse economico, ammesso che questo interesse ci sia?
L’Europa non è un’espressione geografica, né solo un’entità politica: è in primo luogo una grande realtà dello spirito che ha saputo coltivare nei secoli passati idee e valori, quali la moderna scienza sperimentale, il liberalismo, la separazione tra società civile e Stato, o tra religione e Stato, gli stessi “diritti dell’uomo”, che hanno assunto un significato universale. L’aver rinunciato a richiamare espressamente le radici cristiane nella Costituzione europea è stata una gravissima omissione, un atto di autolesionismo. Il concetto di eredità cristiana non può essere sostituito, come è stato fatto, dal richiamo ad una generica spiritualità o un’asettica cultura illuministica.
Come aveva intuito un uomo di nome Karol Wojtyla (1920–2005), l’Illuminismo, nel suo aspetto di valorizzazione della ragione umana, al pari dell’Umanesimo, non è stata una pianta nata per germinazione spontanea, ma il precipitato storico di un pensiero che, nato in Grecia, è arrivato a Roma passando per Gerusalemme, e che si è mostrato capace persino di assorbire ciò che di buono c’era nello stesso mondo barbaro.
Bisogna poi riconoscere che se è vero che i cristiani, da soli, senza l’Illuminismo, forse non avrebbero sviluppato la teoria dei diritti dell’uomo, è altrettanto innegabile che l’Illuminismo è potuto fiorire, come accennato, solo in un humuspermeato dal cristianesimo (“Libertà, Uguaglianza e Fraternità” sono valori evangelici sottratti alla loro radice), il quale, con tutta probabilità, dimenticando le offese ricevute, sarà chiamato un giorno a difenderne i principi, primo tra tutti quello della voltairiana tolleranza, così come al tempo delle invasioni barbariche salvò quella civiltà che pure lo aveva perseguitato. È questo “il genio del cristianesimo”, per usare un’espressione cara a René de Chateaubriand (1768–1848).
E fu un cristiano, Stephen Langton (1150 c.ca–1228), arcivescovo di Canterbury, che nel 1215, nella sua qualità di consigliere principale del re Giovanni Senzaterra (1167–1216), ebbe tanta parte nella redazione di quella Magna Charta Libertatum che, ponendo limiti al potere del sovrano e stabilendo con l’Habeas Corpus che la persona arrestata (il “corpo”) dovesse essere condotta in tempi brevi di fronte a un giudice, riconosceva l’inviolabilità dei diritti individuali, ponendo così la base del moderno costituzionalismo.
La moderna idea di libertà, se rinuncia a Dio, perde, insieme ai suoi limiti, il suo fondamento più profondo. Un’Europa e un Occidente senza Cristianesimo porta alla ribalta un Uomo che diventa Assoluto, vale a dire misura di tutte le cose, e che si arroga il diritto di decidere del bene e del male: una libertà senza fondamento e senza altro limite che non sia quello della possibilità tecnica. I tre pilastri del totalitarismo del Novecento (fascismo, nazismo e comunismo) – non bisogna dimenticarlo – sono stati per tanta parte il frutto amaro del delirio di onnipotenza della ragione umana, oltre che la più tipica forma di neopaganesimo dell’età moderna.
Se Dio viene escluso dalla vita pubblica, su che cosa poggeremo il diritto naturale? «Chi è l’uomo dei diritti dell’uomo? E quest’ultimi potrebbero sopravvivere alla “morte di Dio”?» già si chiedeva un preoccupato e preveggente papa Paolo VI (Giovanni Battista Montini – 1897/1978). D’altra parte, ogni idea, anche quella che si ritiene la più giusta, deve essere proposta in un contesto di libertà, ciò che comporta il rifiuto dell’odio e della demonizzazione dell’avversario politico. La stessa ricerca della verità, in quanto è amore della verità, si può dare solo in un contesto di libertà.
Cristianesimo e libertà sono l’essenza stessa dell’Europa, e, nonostante ingannevoli apparenze e superficiali ricostruzioni storiche, essi non vanno mai disgiunti, avendo l’autentico pensiero liberale nel Vangelo la sua sorgente più profonda. In questo mondo in subbuglio, un Occidente ricco e timoroso, sazio e gaudente, ha rimosso l’idea stessa della guerra, che invece, purtroppo, è parte della storia umana, ancorché possa sembrare lontana nel tempo e nello spazio.
La civiltà occidentale non si difende con la rinuncia ai valori della tradizione cristiana che sono alla sua base, né con le parodie dissacranti dell’essenza stessa della fede cristiana con il pretesto dell’inclusione, come è avvenuto a Parigi in occasione dei Giochi Olimpici (una civiltà senza radici non avrebbe più nulla da includere): la libertà si difende mostrando ai suoi nemici che l’Occidente è ancora capace di sacrifici. Ma dove troverà, l’Europa e l’Occidente, il propellente per questa difesa?
Il cristianesimo è il nemico più irriducibile dei totalitarismi e in Europa potrà essere decisivo per salvare la libertà, per salvarla anche da sé stessa, dandole un senso. Così negli individui come nelle nazioni, rinunciare alle proprie radici equivale a rassegnarsi a vivere senza futuro. Atteggiamento, questo, che si alimenta, tra l’altro, di una sostanziale ignoranza del proprio passato da parte di classi dirigenti che si limitano, quando ci riescono, a gestire l’esistente. Fuori da un visione trascendente la natura e la materia su che cosa poggerà quella vita dello spirito che è fatta di poesia e di pensiero, di tolleranza, di fraternità, di gentilezza d’animo, di devozione a una causa superiore all’utile immediato dei singoli individui, di difesa dei più deboli e degli svantaggiati dalla vita e dalla natura?
Solo ritrovando le sue radici cristiane l’Europa potrà difendere l’idea di libertà che in essa è fiorita, ritrovare sé stessa, e salvare il mondo dall’autodistruzione. Per il resto, come esortava Benedetto Croce (1866–1952) nelle ultime righe della sua memorabile Storia dell’Europa nel secolo decimonono, lasciamo fare «alla divina provvidenza, che ne sa più di noi singoli e lavora con noi, dentro di noi e sopra di noi».