Home Editoriale L’assoluzione del ministro Salvini e dell’ex premier Renzi riapre il fronte Giustizia

L’assoluzione del ministro Salvini e dell’ex premier Renzi riapre il fronte Giustizia

Scritto da redazione

SULMONA-Quando gli imputati sono importanti, perché politici di rilievo nel variegato panorama politico del nostro Paese, si può assistere, come è accaduto qualche settimana fa, alle dichiarazioni di due imputati eccellenti, come Renzi Salvini, che hanno detto di parlare a nome dei tanti altri senza nome, costretti, loro malgrado, a subire la stessa loro disavventura giudiziaria. 

Renzi ha chiesto le scuse di chi ha formalizzato, strumentalizzandole, le accuse a suo carico, Salvini ha chiesto a gran voce di accelerare l’approvazione delle riforme che servono alla giustizia, a cominciare da quella costituzionale che prevede la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, doppio CSM e un’Alta Corte esterna per le sanzioni disciplinari. Tutte scelte destinate ad inasprire le tensioni esistenti, da qualche tempo, tra governo e toghe, e tra maggioranza e opposizione, senza che si profili all’orizzonte una ragionevole possibilità di soluzione del problema.

Quanto verificatosi a Firenze, dove un giudice dell’udienza preliminare ha negato il rinvio a giudizio dell’ex Premier, chiesto oltretutto dalla Procura, trova la sua ragion d’essere in parte nell’accidentato percorso dell’indagine, sempre più indebolito, in parte nella riforma voluta dall’ex ministro della Giustizia Marta Cartabia, introdotta di recente, che stabilisce che l’imputato può essere condannato non più solo quando ci sono elementi per sostenere l’accusa nel dibattimento, ma solo in presenza di una “ragionevole previsione di condanna“.

Quando Salvini fu rinviato a giudizio nel 2021, allora ministro dell’Interno nel governo Conte, valeva la norma  di cui sopra cambiata dalla Cartabia; inoltre, gli ipotetici reati commessi da Salvini erano stati oggetto di valutazione da ben due procure, quella di Agrigento e quella di Palermo e dal tribunale territoriale dei ministri, composto da tre magistrati, oltre ai senatori che decisero l’autorizzazione a procedere negando il “preminente interesse pubblico“, che avrebbe garantito l’immunità a Salvini, oltre che ministro degli Interni, anche vice-premier.

Lo stravolgimento, semmai, sta nel fatto che il dibattimento è durato tre anni e tre mesi, durante i quali si sono tenute 25 udienze. Tempi incompatibili con una giustizia efficace, credibile, efficiente, sui quali bisogna, però, ricordare che hanno influito diversi fattori, come l’impegno degli stessi giudici in altri processi, compresi quelli per mafia, con imputati già detenuti, che hanno la precedenza sempre, e reati contro la pubblica amministrazione, fino agli impegni politici e istituzionali di Salvini e del suo difensore.

A parere di tutti gli studiosi del diritto o di quanti frequentano ogni giorno i palazzi di giustizia, però, le riforme già approvate, e quelle in fieri, serviranno poco o nulla ad accelerare i tempi necessari alle indagini e alle udienze. Anzi, alcune potrebbero addirittura rallentarli ulteriormente.

Considerazioni tutte che non sottendono, però, la questione di fondo che resta la separazione delle carriere, sulla quale il conflitto tra politica e giustizia ha ripreso ad infiammarsi: il presunto appiattimento dei giudici sui pubblici ministeri, l’assenza di una necessaria equidistanza tra accusa e difesa davanti al giudice, soggetto unico e non imparziale davanti alle due parti contendenti.

Proprio gli esiti dei procedimenti giudiziari a carico della Fondazione Open e di Open Arms, come le troppe assoluzioni nel dibattimento, di cui si lamentano gli stessi promotori della riforma, dimostrano che il principale ostacolo da rimuovere non sia quanto detto in precedenza, ma che un pubblico ministero, motu proprio, possa pensare sempre più ad ottenere la condanna dell’imputato, anziché il raggiungimento della verità, a discapito di indagati e imputati.  

Angela Casilli

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